mercoledì 21 settembre 2016

Meditare avendo Cura di non cercare il Senso

La “sofferenza soffocante” che incontriamo nelle nostre vite sembra sempre qualcosa di solido, che ci sommerge, senza via d’uscita. In quanto esseri umani, la ricerca di un senso coerente ci dà l’illusione di soffrire di meno. È come una risposta di speranza.
Il punto è che la sofferenza che incontriamo non ha un senso. Non c’è un premio per aver resistito. E non ci sarà neanche un momento in cui, qualsiasi cosa accada, non sentiremo più sofferenza. Non è nel trovare un significato ad essa che riusciremo ad allontanarla. Probabilmente il punto è che non va allontanata, ma che, al contrario, va accettata, va accolta, va lasciato spazio. Se lasciamo spazio alla sofferenza, se ci permettiamo di sentirla, nel momento presente, quello che accade miracolosamente è che troveremo lo spazio anche per la felicità, per la compassione, per l’amorevolezza, per la libertà. Quando parlo di accettazione non mi riferisco alla sopportazione. Spesso, probabilmente perché figli di un Cristianesimo frainteso, sento una certa resistenza di fronte alla parola accettazione. Come se io stessi dicendo che bisogna sopportare con religiosa rassegnazione tutto ciò che la vita presenta, senza muoversi per cambiare la condizione. E questo ho sentito io stessa per molto tempo.
Accettare significa non fare niente? Significa rimanere vittime rassegnate degli eventi?
Poi ho guardato i fiori. Ho guardato ciò che succede alle piante. Mi era già successo in passato, ma probabilmente non ero pronta a coglierne davvero l’insegnamento.
E il lavoro sembra complesso… come lo sbocciare di una ginestra tra le pietre laviche. Eppure lo sbocciare di un fiore è sempre portato ad esempio della semplicità della natura. Lo sbocciare della ginestra è assolutamente naturale in alcuni contesti specifici. Se si lascia solo che le cose vadano naturalmente, senza ricoprire le rocce laviche di coperte, o antiparassitari chimici, senza sfrondare gli alberi, senza isolare le rocce, allora la ginestra semplicemente sboccerà. Una ginestra però è una ginestra. Non è una quercia, non una margherita. È quel che è e crescerà per quel che è.
Le coperte, gli antiparassitari e tutto il resto che noi mettiamo sui semi del nostro essere, sono pregiudizi, giudizi, ingiunzioni antiche di cui ancora sentiamo le catene, sono pensieri ricorsivi e pieni di contenuti che ci paralizzano.
Ecco perché il lavoro è complesso. Quando siamo portati (per educazione, storia di vita, scelte) a deviare da ciò che sentiamo (anche se non ne siamo consapevoli), ciò che si cominciano a costruire sono “coperte” che impediscono al sole di nutrire, che impediscono alla novità di raggiungerci. Coperte che spesso ci fanno perdere il contatto con il nostro seme, con la nostra essenza.
Allora qual è il senso? Con le parole di Ecktar Tolle:

'Vedere la bellezza in un fiore può, anche se brevemente, risvegliare gli umani alla bellezza perché questa è una parte essenziale del loro più profondo essere, della loro vera natura. L'iniziale riconoscimento della bellezza è stato uno degli eventi più significativi nell'evoluzione della coscienza umana. I sentimenti di gioia e di amore sono intrinsecamente connessi con quel riconoscimento. Senza che ce ne rendessimo conto, i fiori sarebbero diventati per noi un'espressione della forma di ciò che è più alto e più sacro, in definitiva di una non forma dentro di noi. I fiori, più fragili, più eterei e più delicati delle piante dalle quali spuntano, sarebbero diventati quasi dei messaggeri di un altro regno; quasi un ponte fra il mondo della forma e quello della non forma.
Usando la parola "illuminazione" in un senso più ampio di quello convenzionalmente accettato, potremmo vedere i fiori come l'illuminazione delle piante'.

Lasciare lo spazio è tutto ciò che deve essere fatto, o meglio guardare lo spazio che già c’è. Sembra così difficile spiegarlo, eppure è una cosa così semplice quando accade.
Una delle meditazioni che ho più amato e che piace molto anche ai miei pazienti riguarda la mente pura, spaziosa. Si tratta di una pratica molto difficile all’inizio, in cui facilmente emergono giudizi sulla nostra incapacità di “svuotare” la mente, di non pensare a niente. Il punto è che noi non dobbiamo svuotare un bel niente. Dobbiamo guardare, osservare il passare dei contenuti, consapevoli che il contenitore è molto più grande e che non è contaminato permanentemente dai contenuti. E per realizzare questo basta solo osservare. Niente di più. Senza giudizio. Osservando anche i pensieri sui pensieri. Quando succede che lo realizziamo la sensazione è di grande spazio di libertà, tutta l’illusione di dover controllare svanisce nella semplice sperimentazione dello spazio infinito che è la nostra mente. Come il fiore di Tolle, questo è il nostro ponte tra il mondo della forma e il mondo della non forma.

Questo fa parte della nostra evoluzione e del nostro “compito” in questa evoluzione umana. Diventare consapevoli dei nostri pensieri e guardare con curiosità al loro susseguirsi, per cogliere la vastità dello spazio in cui si muovono.

domenica 18 settembre 2016

Meditare avendo Cura di lasciare Spazio di Apertura

Ho sempre amato i libri. Ho sempre amato leggere.  Leggere mi ha permesso di sopravvivere nei momenti più bui della mia vita. Sono stata sempre affamata di cose nuove, di mondi diversi da quello in cui vivevo. E li ho amati tutti! Guardandomi indietro mi rendo conto che ogni volta che ho chiuso un libro ho sempre pensato che fosse il più bello che io avessi mai letto, e l’ho sempre consigliato a tutti.
Ho collezionato chili e chili di libri, vedendoli come oggetti sacri che mi hanno permesso di contattare ciò che altrimenti mi sarebbe rimasto sconosciuto.
Forse per questo ho sempre pensato che per scrivere un libro bisognasse “sapere” qualcosa. Qualcosa che gli altri “non sapevano”. E per diverso tempo non ho scritto perché io non sapevo qualcosa che gli altri non sapessero già, ed inoltre il fatto di mettere su carta un mio pensiero lo trovavo contrario al concetto di impermanenza. Mi dicevo: ma se tutto cambia continuamente, come posso io scrivere pensando che ciò che scrivo rimarrà sempre valido, anche per me?
Ho un cattivo rapporto con i contenuti. Quello che mi piace guardare, anche nel mio lavoro, è il processo, il movimento. I contenuti li trovo noiosi e stancanti e spesso stagnanti. Solo quando io mi sono staccata dai contenuti, ho potuto sentire la libertà di movimento nella mia vita. E solo guardando ai processi posso essere utile ai miei pazienti, avviluppati nei contenuti.
Anche questo probabilmente è stato uno dei motivi per cui ho sempre trovato difficile scrivere: non è forse riempire il foglio di contenuti?
Poi però è accaduto che durante una meditazione, ho sentito chiaramente di voler condividere questo processo di cambiamento. Ho sentito che può essere utile a qualcuno, oltre che ai miei pazienti. Anche se è a loro che penso mentre scrivo. Perchè è con loro che il mio processo di trasformazione si fa sempre più chiaro.
È accaduto semplicemente che ho cominciato a vedere con chiarezza e compassione quello che mi accade, senza essere travolta da pensieri o emozioni, e da allora tutto ha cambiato significato. E’ iniziata una nuova storia di vita.. una vita senza storia pregressa né futura, ma nella storia presente.
La cosa che più mi ha stupita e, devo dire, anche intimorita all’inizio, è stata la sensazione che stessi facendo “esperienza” di me mentre vivevo. Non riconoscevo atteggiamenti, azioni, reazioni. Non mi “ritrovavo”, eppure sentivo questa serenità di coerenza. E sentivo come uno sforzo, ogni volta che ritornavo alle vecchie modalità di pensiero. La naturalezza era nello sconosciuto. Lì mi sentivo quieta e comoda.
Tempo fa un mio caro collega mi disse che mentre leggeva i racconti dei miei viaggi, non mi riconosceva. Non riconosceva la mia storia, in cui invece mi vedeva incatenata quando tornavo a casa.



Ecco. Credo che la mia marcia verso il cambiamento sia iniziata proprio lì, quando ho cominciato a viaggiare da sola e a scrivere di ciò che incontravo. Non ho mai programmato nei dettagli i viaggi e ho sempre lasciato che accadessero, con una leggerezza che non mi permettevo nella mia vita “normale”.
Non ho incontrato tanti altri, ma ho incontrato tante me. Non sono mai stata realmente sola perché ho conosciuto tante Giulia che non avevo mai visto prima, e le ho sempre accolte con curiosità ed entusiasmo.
Questo però accadeva durante il viaggio. Quando tornavo a casa era come se venissi inghiottita da una nube di pensieri che mi confondeva e che mi obbligava a ripetermi sempre le stesse cose. Cose che riguardavano ‘chi sono’, ‘da dove vengo’, quanto male ho ricevuto’, ‘gli sforzi che devo continuamente fare per affrancarmi da un passato che non ho voluto io’, ‘le colpe’, ‘la sensazione di non essere mai stata amata’, la paura di essere abbandonata’, ‘la certezza e la condanna della mia solitudine’..
Cosa accadeva di diverso nel viaggio? Cosa mi permetteva di aprirmi senza giudizio alla sconosciuta e amica Giulia?
E mentre scrivo questa domanda mi rendo conto che è errata. Forse la domanda più opportuna è: cosa non mi permetteva, quando tornavo a casa, di incontrare la sconosciuta e amica Giulia?
Per molto tempo ho pensato fosse colpa del contesto, della solitudine, del mio lavoro, delle aspettative degli altri, e bla bla bla.
Poi, poco tempo fa, durante una meditazione di compassione, ho visto qualcosa che mi ha commossa profondamente: la felicità c’è già; la libertà c’è già; la serenità c’è già!
Tutte le cose che mi auguravo con compassione sono in realtà già lì. Quello che succede è solo che io pongo resistenze. Non le accolgo. Attraverso la mia nube di giudizi, rabbia, dolore, aspettative e quant’altro, non lascio spazio per accogliere la felicità, la serenità, la libertà, che sono semplicemente lì. È stato un momento commovente, pieno di luce, pieno di dolcezza e anche pieno di compassione per me. Autentica compassione.
Ora, io non credo realmente di aver avuto un colpo di fortuna, o di essere particolarmente “elevata”. Credo fermamente che tutto il mio faticoso percorso di ricerca mi abbia portato qui. La ricerca di un senso a tutta la sofferenza che ho incontrato mi ha portato a sentire che il punto non è trovare il senso di ciò che accade, ma è l’apertura senza resistenza.

giovedì 15 settembre 2016

Meditare avendo Cura di prendersi Cura




Un altro punto fondamentale per me nella meditazione è l’amorevolezza verso noi stessi.

Sì, è un lavoro duro, e proprio per questo è importante avere l’atteggiamento di chi si prende cura di un piccolo bambino che ancora non sa andare da solo. Un’attenzione di cura, di premura, di delicatezza, di sollecitudine, nei confronti di noi stessi che decidiamo di intraprendere questo percorso, questa ricerca faticosa.

A volte, nella disperata ricerca di qualcosa che le faccia star meglio, incontro persone che, con una determinazione rigida, e con tantissimo giudizio, si mettono sul cuscino a meditare. Ecco, questa modalità non ha un’intenzione di cura. È una risposta alla disperazione, è la ricerca di una via d’uscita, il più presto possibile. 

Non c’è rispetto dei propri tempi, non c’è amorevolezza.


Da qualche tempo lavoro con un paziente che presentava un disturbo ossessivo. Ovviamente non è stato difficile cominciare anche il percorso di meditazione: era cambiato l’oggetto dell’ossessione. Per un po' di tempo ho seguito il suo bisogno di avere una meditazione diversa ogni mese. Quando mi sono presa una pausa, lui ha trovato un corso di mindfulness, per averne di nuove. Al mio rientro di nuovo mi ha chiesto di praticarne un’altra. 
A quel punto gli ho risposto di ricominciare dalla prima, con sguardo nuovo, e di provare a notare quello che era cambiato, con la curiosità nei confronti del piccolo se stesso che sperimenta cose nuove, con la mente del principiante!
È stata una buona idea. Ha ricominciato, ha compreso.

Se un bambino piange, prima ancora di dargli da mangiare o cambiargli il pannolino, è importante prenderlo in braccio e rassicurarlo che ci siamo, entrare in contatto intimo e di cura. Così imparerà a fidarsi. 
Lo stesso atteggiamento è auspicabile nei nostri confronti, quando abbiamo a che fare con il lavoro faticoso e doloroso che possono essere la meditazione e la psicoterapia.

Non è possibile meditare con l’intenzione di sfamarti, ma puoi meditare sulla tua fame, capire da dove viene e qual è la sua direzione.


Meditare avendo Cura di non banalizzare

Ecco, forse è proprio questa la prima cosa che mi è venuta in mente, in un tempo in cui la meditazione sembra la panacea di tutti i mali, e in cui il rischio è di perderne il significato profondo e delle radici.

Qualche tempo fa una cara paziente all’inizio del percorso terapeutico e anche di meditazione, mi raccontava che la pratica che abbiamo fatto insieme, e che lei era invitata a fare anche a casa, le era stata molto utile con il mal di testa e nei suoi momenti di forte ansia. Quindi come farmaco-non-farmaco nei momenti di emergenza.
Beh, siamo all’inizio e, per quanto io chiarisca da subito che la meditazione non è questo, spesso è così che viene vista.

Ritengo sia molto banalizzante ricorrere alla meditazione come strategia per lenire la sofferenza momentanea. Direi anzi che la meditazione è la via regia per incontrare questa sofferenza in modo sempre più approfondito, per arrivare alla visione chiara che ci permetterà piano piano di guardarla da fuori, di non esserne travolti.

Attraverso la pratica meditativa Buddha acquisì sempre maggiore consapevolezza, che lo portò alla visione della Quattro Nobili Verità, dell’Ottuplice Sentiero, e poi alla Grande Illuminazione.

La meditazione quindi è la via della consapevolezza.
Già all’inizio del mio lavoro come psicoterapeuta avevo chiaro che il mio compito era quello di accompagnare i miei pazienti verso una maggiore consapevolezza dei loro automatismi, con i modi che conoscevo. 
Non ho mai avuto “soluzioni” da dare, o “consigli” su cosa fare. Non avevo ancora incontrato il buddhismo, ma la psicoterapia per me era questo: la via della consapevolezza!

Nell’incontro con la meditazione e con gli insegnamenti di Buddha, mi sono sentita a casa.

E nel lavoro che faccio adesso, la meditazione diventa sostegno alla psicoterapia e la psicoterapia è di sostegno alla meditazione. Entrambe vie di consapevolezza, che si completano e che non fanno a meno l’una dell’altra.

Certo, la meditazione vista così non è appetibile.E neanche la psicoterapia, per come le presento io.

“E’ un lavoro, un impegno. Guardare ai propri automatismi non è piacevole, né sarà facile controllarli e liberartene così, di punto in bianco. Ci vorrà pazienza, amorevolezza e tanta attenzione”.

Questa presentazione del lavoro che avremmo fatto ha accolto sempre i miei nuovi pazienti, anche quando ne avevo solo tre! Così come faccio adesso, quando presento anche la meditazione, insieme alla psicoterapia.
Rimarranno forse i coraggiosi, anche se la richiesta d’aiuto rimarrà per un po’ oscurata dalla nebbia della disperazione.


Io so che è nebbia però…

mercoledì 14 settembre 2016

ContempliamoMeditando


"L’irrequietezza moderna. - Avvicinandosi sempre di più a occidente, l’agitazione moderna si fa sempre più grande, sicché agli americani gli abitanti dell’Europa sembrano amanti della pace e della bella vita, mentre anch’essi ronzano e si agitano come uno sciame di api e vespe. Questa agitazione diventa così grande, che la cultura superiore non può più maturare i suoi frutti: è come se le stagioni si susseguissero troppo rapidamente. Per mancanza di calma la nostra civiltà sfocia in una nuova barbarie. Mai come oggi gli attivi, cioè gli irrequieti, hanno goduto di tanta considerazione. Perciò una delle necessarie correzioni da apportare al carattere dell’umanità è di rafforzare largamente l’elemento contemplativo. Certo ogni individuo, che nel cuore e nella mente sia calmo e costante, ha già il diritto di credere di possedere non solo un buon temperamento, ma una virtù di utilità generale, e di adempiere, preservando questa virtù, a un compito superiore."
Questo lo scriveva Nietzsche nel 1878...Non credo conoscesse quella che noi oggi chiamiamo meditazione, ma certamente conosceva la contemplazione.
Non sono tempi facili quelli di adesso per la contemplazione, ancor di più che ai tempi di Nietzsche.. e allora abbiamo bisogno di chiamarla meditazione, di strutturarla, di dare una direzione, di avere dei luoghi determinati dove praticarla..di avere qualcuno che ci guidi. Sembra triste, ma è proprio ciò che la nostra evoluzione ha determinato. Direi che è stata, soprattutto negli ultimi decenni, la strada che paradossalmente più facilmente, ha portato ad una maggiore attenzione e necessità di tornare alla contemplazione.
Sempre Nietzsche:
"Sono forse i vantaggi dei nostri tempi a portar con sé una diminuzione, e talora una sottovalutazione, della vita contemplativa. Ma bisogna pur ammettere che la nostra epoca è povera di grandi moralisti, che Pascal, Epitteto, Seneca, Plutarco oggi son poco letti, e che lavoro e solerzia - normalmente al seguito della grande dea salute - sembrano talora imperversare come una malattia. Poiché manca il tempo per pensare e la calma nel pensare, non si prendono più in considerazione quelle idee che esulano dalla norma: ci si limita a odiarle. Nell’enorme acceleramento della vita, occhio e spirito si abituano a vedere e a giudicare a metà o in modo errato, e ognuno assomiglia a quei viaggiatori che fan la conoscenza di un paese o di un popolo dal treno."
Il nostro compito evolutivo oggi sembra essere una contemplazione relazionale, diversa probabilmente da quella che auspicava Nietzsche, ma che comunque richiede un fermarsi e tornare a noi stessi.
E allora meditiamo con cura, per consentirci di tornare a contemplare ciò che ci circonda.. paesaggi, cose, esseri umani, l'altro vicino.. contempliamo noi in contemplazione dell'altro.