La “sofferenza soffocante” che
incontriamo nelle nostre vite sembra sempre qualcosa di solido, che ci
sommerge, senza via d’uscita. In quanto esseri umani, la ricerca di un senso
coerente ci dà l’illusione di soffrire di meno. È come una risposta di
speranza.
Il punto è che la sofferenza che
incontriamo non ha un senso. Non c’è un premio per aver resistito. E non ci
sarà neanche un momento in cui, qualsiasi cosa accada, non sentiremo più
sofferenza. Non è nel trovare un significato ad essa che riusciremo ad
allontanarla. Probabilmente il punto è che non va allontanata, ma che, al
contrario, va accettata, va accolta, va lasciato spazio. Se lasciamo spazio
alla sofferenza, se ci permettiamo di sentirla, nel momento presente, quello
che accade miracolosamente è che troveremo lo spazio anche per la felicità, per
la compassione, per l’amorevolezza, per la libertà. Quando parlo di accettazione
non mi riferisco alla sopportazione. Spesso, probabilmente perché figli di un
Cristianesimo frainteso, sento una certa resistenza di fronte alla parola
accettazione. Come se io stessi dicendo che bisogna sopportare con religiosa
rassegnazione tutto ciò che la vita presenta, senza muoversi per cambiare la
condizione. E questo ho sentito io stessa per molto tempo.
Accettare significa non fare
niente? Significa rimanere vittime rassegnate degli eventi?
Poi ho guardato i fiori. Ho
guardato ciò che succede alle piante. Mi era già successo in passato, ma
probabilmente non ero pronta a coglierne davvero l’insegnamento.
E il lavoro sembra complesso… come
lo sbocciare di una ginestra tra le pietre laviche. Eppure lo sbocciare di un
fiore è sempre portato ad esempio della semplicità della natura. Lo sbocciare
della ginestra è assolutamente naturale in alcuni contesti specifici. Se si
lascia solo che le cose vadano naturalmente, senza ricoprire le rocce laviche di
coperte, o antiparassitari chimici, senza sfrondare gli alberi, senza isolare
le rocce, allora la ginestra semplicemente sboccerà. Una ginestra però è una
ginestra. Non è una quercia, non una margherita. È quel che è e crescerà per
quel che è.
Le coperte, gli antiparassitari e
tutto il resto che noi mettiamo sui semi del nostro essere, sono pregiudizi,
giudizi, ingiunzioni antiche di cui ancora sentiamo le catene, sono pensieri
ricorsivi e pieni di contenuti che ci paralizzano.
Ecco perché il lavoro è complesso.
Quando siamo portati (per educazione, storia di vita, scelte) a deviare da ciò
che sentiamo (anche se non ne siamo consapevoli), ciò che si cominciano a
costruire sono “coperte” che impediscono al sole di nutrire, che impediscono
alla novità di raggiungerci. Coperte che spesso ci fanno perdere il contatto
con il nostro seme, con la nostra essenza.
Allora qual è il senso? Con le
parole di Ecktar Tolle:
'Vedere la bellezza in un fiore
può, anche se brevemente, risvegliare gli umani alla bellezza perché questa è
una parte essenziale del loro più profondo essere, della loro vera natura.
L'iniziale riconoscimento della bellezza è stato uno degli eventi più significativi
nell'evoluzione della coscienza umana. I sentimenti di gioia e di amore sono
intrinsecamente connessi con quel riconoscimento. Senza che ce ne rendessimo
conto, i fiori sarebbero diventati per noi un'espressione della forma di
ciò che è più alto e più sacro, in definitiva di una non forma dentro di noi. I
fiori, più fragili, più eterei e più delicati delle piante dalle quali
spuntano, sarebbero diventati quasi dei messaggeri di un altro regno; quasi un
ponte fra il mondo della forma e quello della non forma.
Usando la parola "illuminazione" in un senso più ampio di quello
convenzionalmente accettato, potremmo vedere i fiori come l'illuminazione delle
piante'.
Lasciare lo spazio è tutto ciò che
deve essere fatto, o meglio guardare lo spazio che già c’è. Sembra così
difficile spiegarlo, eppure è una cosa così semplice quando accade.
Una delle meditazioni che ho più
amato e che piace molto anche ai miei pazienti riguarda la mente pura,
spaziosa. Si tratta di una pratica molto difficile all’inizio, in cui
facilmente emergono giudizi sulla nostra incapacità di “svuotare” la mente, di
non pensare a niente. Il punto è che noi non dobbiamo svuotare un bel niente.
Dobbiamo guardare, osservare il passare dei contenuti, consapevoli che il
contenitore è molto più grande e che non è contaminato permanentemente dai
contenuti. E per realizzare questo basta solo osservare. Niente di più. Senza
giudizio. Osservando anche i pensieri sui pensieri. Quando succede che lo
realizziamo la sensazione è di grande spazio di libertà, tutta l’illusione di
dover controllare svanisce nella semplice sperimentazione dello spazio infinito
che è la nostra mente. Come il fiore di Tolle, questo è il nostro ponte tra il
mondo della forma e il mondo della non forma.
Questo fa parte della nostra
evoluzione e del nostro “compito” in questa evoluzione umana. Diventare
consapevoli dei nostri pensieri e guardare con curiosità al loro susseguirsi,
per cogliere la vastità dello spazio in cui si muovono.